La Cassazione, con sentenza n. 11546 dello scorso 15 giugno, ribadisce un concetto fondamentale sulla portata dell’art. 2087 del Codice Civile (L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) ossia che, ai fini dell’accertamento delle responsabilità del datore di lavoro, il lavoratore deve poter dimostrare l’esistenza del danno, la nocività degli ambienti di lavoro e il nesso causale esistente fra i due elementi.
Da parte sua, il datore di lavoro, deve poter dimostrare di aver messo in pratica tutte le misure necessarie per impedire che l’evento si potesse verificare.
Il Codice Civile, con l’art. 2087, non vuole stabilire l’ipotesi assoluta di responsabilità oggettiva del datore di lavoro né si può stabilire che, in capo allo stesso, vi sia un obbligo assoluto di rispettare ogni precauzione possibile per evitare qualsiasi danno e garantire, conseguentemente, un ambiente di lavoro a rischio zero: se passasse tale principio, si avrebbe la conseguenza che qualsiasi evento lesivo sarebbe ascrivibile al datore di lavoro.
Il verificarsi del danno non determina, in linea di principio, una diretta conseguenza dell’inadeguatezza delle misure di protezione adottate dal datore di lavoro: è necessario che il danno derivi causalmente dalla violazione degli obblighi di comportamento previsti dalle norme in materia o suggeriti dalla casistica rispetto alle attività lavorative svolte.