La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16135 dello scorso 28 luglio, ha affermato che i buoni pasto non hanno natura retributiva: di conseguenza, la loro erogazione mensile ai lavoratori dipendenti può essere interrotta da parte del datore di lavoro in qualsiasi momento, anche unilateralmente.
I fatti di causa vedono un lavoratore ricorrere giudizialmente contro il proprio datore di lavoro, allo scopo di veder dichiarata l’illegittimità della decisione aziendale con la quale quest’ultimo aveva – in maniera del tutto unilaterale – disposto l’interruzione dell’erogazione dei buoni pasto in favore dei propri dipendenti.
Il lavoratore rivendicava, nell’oggetto del proprio ricorso, la funzionalità dei buoni pasto a un rapporto contrattuale integrativo, componente della retribuzione anche per la legittima aspettative dei lavoratori a seguito della reiterata e generalizzata prassi aziendale dall’anno 1999 al 2006. Di conseguenza, l’erogazione dei buoni pasto sarebbe da ricondursi al principio di irriducibilità della retribuzione stessa.
I Giudici di Cassazione – confermando la pronuncia della Corte d’Appello – hanno affermato, preliminarmente, che i buoni pasto NON rappresentano un elemento dell’ordinaria retribuzione del lavoratore e che, dunque, non sono da considerarsi come un’erogazione di natura retributiva.
I buoni pasto, a dire della Suprema Corte, sono da qualificarsi alla stregua di un’agevolazione preminentemente assistenziale e collegata al rapporto di lavoro da un nesso di natura meramente occasionale.
Ai fini della natura retributiva dei buoni pasto non rileva neppure la reiterata erogazione degli stessi nel tempo da parte del datore di lavoro, ancorché la stessa abbia ormai costituito una prassi aziendale consolidata.
Dal momento che i buoni pasto non rientrano nel trattamento retributivo in senso stretto, il datore di lavoro può decidere unilateralmente in merito alla loro erogazione: la loro erogazione deriva da disposizione aziendale di carattere discrezionale, che nulla ha a che vedere con disposizioni contrattuali o sindacali.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore e confermato la legittimità dell’operato del datore di lavoro.