Con la recente sentenza n. 4896 del 23 febbraio 2021, la Suprema Corte chiarisce i requisiti di legittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione di un lavoratore disabile.
Le Sezioni Unite n.7755 del 1998 hanno affermato che “La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineleggibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altre attività riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”.
Orientamento confermato da numerose pronunce successive che hanno ritenuto come l’inutilizzabilità della prestazione del lavoratore divenuto inabile, con alterazione dell’assetto organizzativo della medesima, può costituire giustificato motivo di licenziamento.
Il diritto del lavoratore disabile all’adozione di accorgimenti che consentano l’espletamento della prestazione lavorativa trova un limite nell’organizzazione interna dell’impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa stessa nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita.
I Giudici di legittimità definiscono, anche mediante richiamo alla normativa europea, i confini dei c.d. “accomodamenti ragionevoli” e cioè dei limiti dell’onere del datore di rivedere la propria organizzazione pur di mantenere in servizio il disabile, assegnandogli altre mansioni.