L’uso dei social pone a rischio di procedura disciplinare, fino ad arrivare a mettere in discussione lo stesso rapporto di lavoro, il lavoratore che pubblica contenuti offensivi nei confronti della propria azienda/datore di lavoro.
Un concetto che i lavoratori devono tener presente, troppo spesso e ingenuamente dimenticato, è che tutto quello che viene scritto sui social, anche fuori dall’orario di lavoro, può essere usato contro di loro, se ha contenuti offensivi verso il datore di lavoro e i colleghi.
I social media sono piattaforme aperte a una massa indistinta di persone (anche quando si usano filtri di accesso ai propri profili) e così, varcando il sottile confine fra libertà di espressione e dignità altrui, si espongono anche a responsabilità per possibili illeciti penali, come la diffamazione.
Un’invettiva che può generare un danno d’immagine all’azienda, un insulto di troppo al superiore, la rivelazione di fatti che dovrebbero restare riservati, sono tutti esempi di come il dipendente può essere sanzionato, sul piano disciplinare, per via di un post mal riuscito su Facebook, Twitter, LinkedIn o simili: il caso più frequente è quello delle offese verso l’azienda e/o i suoi dirigenti.
La giurisprudenza sul tema ha un approccio rigoroso e poco tollerante, anche se prevale l’analisi del caso concreto; in generale, a fronte di decisioni che riconoscono la possibilità di licenziare per giusta causa chi pubblica frasi offensive verso l’azienda o i colleghi sui social (Cassazione sentenza n. 10987/2018), non mancano decisioni che escludono la rilevanza disciplinare delle comunicazioni che pur avendo contenuti caratterizzati da un forte antagonismo restano entro i limiti della satira o della critica.
Non di rado simili attriti si verificano sul campo delle relazioni industriali, dove si fa un uso sempre maggiore delle piattaforme digitali come bacheche dei lavoratori e dei rappresentanti sindacali.
In pratica, si rende necessario controbilanciare il diritto alla privacy (arte. 4 e 8 della legge 300/70) e le regole dettate dal GDPR così da consentire ai datori di lavoro di effettuare controlli sui profili social dei propri dipendenti.
Aspetto delicato, quindi, è la possibilità che il lavoratore pubblichi messaggi non attinenti al contesto lavorativo (es. a contenuto razzista, incitamento alla droga, ecc.): in tal caso, risulta decisamente più difficile, per il datore di lavoro, contestare disciplinarmente il comportamento.
Qualora gli orientamenti giurisprudenziali dovessero riconoscerne la possibile lesione del rapporto fiduciario (si pensi alla possibile connessione tra quanto pubblicato e le mansioni/responsabilità che il lavoratore riveste nell’azienda), il datore di lavoro potrà contestare e sanzionare la pubblicazione del post se sarà in grado di dimostrare il danno all’organizzazione aziendale e che la condotta ha leso il rapporto di fiducia.